Il coraggio di innovare la scuola

Contributo di Nicola Cotugno, docente ITI Galileo Ferraris Napoli Scampia

 

Se oggi mappassimo lo stato di salute delle scuole italiane scopriremmo una geografia variegata, con tinte confortanti per la scuola primaria e un panorama in chiaroscuro per la scuola secondaria, prevalentemente caratterizzata da un approccio didattico/metodologico nozionistico e ancorato fortemente alle materie, ma oramai anacronistico.

Una condizione questa che, per quanto è diffusa, meraviglia e lascia interdetti, tanto più se si pensa ai grandi sommovimenti avvenuti in questi anni – come la rivoluzione digitale – che ha fortemente riguardato la scuola ma che, dopo oltre venti anni, non è riuscita ad impattarla in modo significativo. Il mondo della scuola appare resistente se non ostile ai cambiamenti, riluttante ad esaminarsi e mettersi in discussione, immerso com’è in un’inerzia autoconservativa, a difesa di un modello didattico prevalentemente vetusto e ampiamente inadeguato al 21° secolo, che però si mostra ancora solido, se non inespugnabile.

Va detto anche che questo immobilismo, a difesa dell’esistente e allergico alle innovazioni, ha diverse concause e certo non si può imputare esclusivamente a chi ha gestito la governance della scuola in Italia. Nel nostro paese, difatti, prevale da tempo il fascino di conservare a tutti i costi ciò che c’è, un fascino irresistibile che da decenni tutti contagia e nessuno esclude: chi ci governa, chi ci rappresenta come cittadini e come lavoratori nelle diverse sedi istituzionali e sociali, ma diffuso anche tra chi opera nella scuola (dirigenti e docenti), nelle famiglie dei giovani cui la scuola è destinata ed infine tra i tanti opinionisti che più sono lontani dalle aule più sembrano esperti ed autorevoli.

Una consolidata diffidenza verso i cambiamenti e l’innovazione che ha causato nei confronti delle giovani generazioni una speculare e generalizzata disaffezione, cresciuta nel tempo e sempre più nella politica e nella gestione della cosa pubblica, ma anche nel comune sentire.

Una visione gerontocratica che ha penalizzato molto i giovani azzerando o quasi iniziative e azioni a loro indirizzate, proprio quelle che avrebbero potuto prefigurare e costruire il futuro dell’Italia.

Tutto questo negli ultimi decenni ha inciso sul declino culturale ma anche economico del nostro paese, diversamente da quanto avvenuto in molti paesi europei che hanno riposto fiducia nei giovani e su cui hanno investito grandi risorse.

Questo modus operandi in Italia ha dimenticato i giovani e tutto ciò che riguarda la loro crescita e formazione, e l’arretratezza della nostra scuola oggi ne è la cartina di tornasole.

Dopo la grande riforma della scuola media unificata del 1962, che ha sancito il diritto costituzionale all’istruzione per tutti, gli interventi nel campo delle politiche educative si sono diradati, quasi sempre improntati ad estemporaneità e mai strategici, con dispiegamenti anche di cospicue risorse mal indirizzate e peggio gestite, che hanno finito col depotenziare e svilire la scuola.

Questa tendenza negativa è stata purtroppo avallata e condivisa da molti soggetti sociali e istituzionali, alle diverse scale territoriali e nei diversi ruoli, che invece avrebbero potuto contrastarla, e questo ha comportato non solo il rinvio sine die di riforme organiche, ma anche lo scarso utilizzo da parte delle scuole di strumenti innovativi che il legislatore pure aveva introdotto, attraverso il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 sull’autonomia scolastica.

A fronte dell’incremento di carichi ed adempimenti burocratici, con conseguente   aumento di responsabilità – aggravatosi ulteriormente in questi anni di pandemia – le scuole, invece di essere individuate come motore dell’innovazione civica e culturale del paese, hanno perso la loro centralità e sono state derubricate nell’orizzonte politico, così come nell’opinione pubblica, ad un ruolo secondario, sempre più periferico che ne ha sminuito l’autorevolezza.

Nemmeno l’impetuosa rivoluzione digitale si è trasformata in un’opportunità per riconfigurare il palinsesto didattico istruzionista e incardinato sulle discipline, per adeguarlo alla contemporaneità ed in molte delle nostre aule ancora oggi le lezioni sanno di anni ’50.

L’evidenza di questo corto circuito oggi è ben rappresentata dalla grande difficoltà a farsi strada ed affermarsi nelle scuole di un reale modello di scuola per competenze, che pure si è ben delineata,  a livello comunitario e nazionale, sotto forma di linee guida e di indirizzi.

Attualmente di “competenze” in ingresso e in uscita, trasversali e disciplinari e chi più ne ha più ne metta, nelle nostre scuole sono pieni i formulari, diligentemente compilati ogni anno dai docenti, ma basta entrare nelle classi, soprattutto della scuola secondaria, per rilevare quanto sia ancora imperante una didattica per contenuti, nozionistica e rigidamente organizzata per materie, che vede gli studenti passivi spettatori di lezioni frontali: una scuola solo fisicamente di prossimità, ma del tutto distante da loro.

E questa stridente contraddizione si è palesata in tutta la sua evidenza in questi due anni di pandemia, in cui si sono animosamente scontrati sostenitori della didattica in presenza o della didattica a distanza, fautori del libro o del digitale, senza che si ponesse quasi mai attenzione su quanto fosse inadeguata e distante dagli studenti, da ben prima della pandemia, la scuola in presenza.

Qui certo non si mette in discussione l’insostituibile valore della relazione umana e sociale che la scuola in presenza garantisce, sia nel rapporto tra docenti e discenti che tra i singoli componenti del gruppo classe, ma si vuole porre in evidenza quanto la didattica in presenza, proprio perché pedagogicamente centrale, oggi debba riconquistare attrattività, liberandosi della strettoia della lezione frontale, che oramai sempre più la avvilisce e depotenzia.

Ma nel dibattito corrente, come ci insegna il famoso proverbio cinese del dito e della luna, nel continuo confronto tra DAD e scuola in presenza, da due anni siamo impegnati a discettare sul COME fare didattica e quali strumenti usare, mentre ben poco si è riflettuto su COSA significhi fare scuola oggi, nel 21° secolo.

Per rispondere a questa domanda, ben più impegnativa, si deve partire dalle criticità in cui ci troviamo: dal tasso di dispersione scolastica alla diffusione del disagio giovanile, dalla fuga di milioni di cervelli all’estero all’enorme numero di giovani neet nel nostro paese, che ci trasciniamo da tempo e che oggi fanno, della questione giovanile, un’assoluta emergenza nazionale.

Per rilanciare le politiche destinate ai giovani bisogna restituire dignità ed autorevolezza al sistema educativo, ripensare la scuola, per ritrovarne un senso e prospettarle una finalità. E per farlo dobbiamo avere chiarezza del modello di scuola da proporre ed in particolare:

  • Individuare e realizzare strategie e metodologie didattiche che affascinino gli studenti ad apprendere, sollecitandone curiosità e interesse, e in cui la pratica didattica interattiva e dialogica li veda protagonisti, per farne crescere l’autostima e stimolare spirito critico;
  • Generare ambienti di apprendimento che sviluppino nel gruppo-classe cooperazione, piuttosto che competizione, basati su una didattica interdisciplinare, che si dilata oltre l’aula, verso un territorio che si fa educante, per espandere tempi e spazi per la crescita culturale e individuale della persona;
  • Ambienti per loro natura autoformativi, in cui si impara facendo in corso d’opera e che costruiscono consapevolezza negli studenti, con l’aula che si trasforma in incubatore civico di life skills, per le relazioni sociali: lo spirito collaborativo, la capacità di decidere e di valutare il proprio operato, per diventare nel futuro cittadini consapevoli.

L’introduzione delle tecnologie digitali, per loro natura e caratteristiche, ha favorito ed agevolato nelle scuole la realizzazione degli ambienti di apprendimento sopra descritti, come dimostrano una miriade di buone pratiche portate avanti e consolidatesi in oltre venti anni di sperimentazione sul campo, pur se tra mille difficoltà e in un contesto organizzativo rigido e ostile ai mutamenti.

L’era digitale ha introdotto innovazioni di assoluto rilievo e dalle grandi potenzialità non solo tecnologiche, ma anche culturali e pedagogiche. Dalle metodologie di studio di tematiche, connesse attraverso criteri reticolari, all’uso della rete e dei dispositivi mobili per l’interscambio di dati, dalle modalità interattive di comunicare e rielaborare contenuti all’uso di diversi linguaggi, alla produzione di manufatti multimediali variegati e condivisi, in grado di cementare relazioni sociali ed umane significative nel gruppo di lavoro, tra docenti e studenti.

Ma l’impatto di tutto questo con l’aula tradizionale, fatta di cattedra, banchi e lavagna di ardesia , ma soprattutto con la rigida organizzazione curricolare e per materie è stato quasi sempre problematico, se non traumatico, ed è avvenuto prevalentemente in modo disomogeneo, senza una pianificazione d’insieme.

Se l’introduzione delle tecnologie innovative a supporto della didattica è stato efficace in alcune aree del paese, o in alcune scuole, in molte altre si è rivelata carente o di nicchia, limitata ad esperienze a compartimento stagno, anche meritevoli ma di singoli docenti e solo in alcune discipline, sempre guardate con scettiscismo e diffidenza dagli stessi colleghi del consiglio di classe o di dipartimento.

La compresenza di queste problematiche che si sono succedute e sovrapposte – scarsa attenzione alla scuola e alle politiche giovanili, arretratezze pluridecennali del sistema di istruzione, limitato e frammentario uso delle tecnologie digitali – ha comportato nelle scuole disorientamento, confusione e anche destabilizzazione.

Si rende quindi urgente una riforma organica per innovare il sistema di istruzione italiano. Ma per cambiare radicalmente rotta deve emergere nel paese una rinnovata consapevolezza su quanto sia importante ridare centralità ed autorevolezza alla scuola, che può tornare ad essere il vero motore di cambiamento, civico e culturale del paese, in cui i nostri giovani si possono con orgoglio riconoscersi.

Va ridisegnata l’architettura di sistema del fare scuola, in cui le competenze disciplinari – linguistiche, matematica, scientifica, e tecnologica, digitale – e ancor più quelle trasversali, destinate alla formazione della persona e del cittadino – imparare ad imparare, sociale e civica, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale – realizzino davvero una scuola per competenze, che al momento si è fermata sulla carta.

Ma l’efficacia di questa riforma, la sua capacità di trasformare la didattica e di arrivare ad ogni scuola dipenderà poi da quanto l’azione legislativa dall’alto sarà accompagnata da una massiccia disseminazione dal basso, perché diventi patrimonio condiviso per i dirigenti e i docenti. E questo avverrà se, oltre a prevedere una nuova articolazione della carriera e una diversa gratificazione anche economica del docente, si riuscirà a migliorare i corsi di formazione e aggiornamento professionale, per orientarli a far emergere in ogni docente, al di là delle competenze didattiche disciplinari, una nuova consapevolezza sul valore civico e formativo dell’insegnamento.

Molte delle criticità cui si è accennato in precedenza – si pensi alla gravissima emergenza della povertà educativa – hanno origini multifattoriali (sociali, economiche, familiari, psicologiche, sanitarie, ecc.) e non è più pensabile che la scuola, da sola, possa affrontarle.

E necessario individuare nuove strategie nel campo delle politiche educative che rompano anche quella condizione di isolamento e debolezza in cui spesso opera l’istituzione scolastica, che faccia leva sulla condivisone tra diversi soggetti e istituzioni, ma questo presuppone che la scuola faccia un passo indietro, e rinunzi a quel piedistallo autoreferenziale in cui spesso è arroccata.

E in questa prospettiva il nuovo strumento dei Patti Educativi Territoriali – verso cui di recente ha mostrato grande apertura anche il ministro dell’Istruzione Bianchi – appare molto interessante perché si sta rivelando efficace in diverse realtà italiane in cui è stato già attivato,  in quanto promuove alleanze delle scuole con comuni, terzo settore e soggetti privati, per realizzare percorsi formativi coprogettati e cogestiti che, potenziati dalla pluralità di soggetti partecipanti, dà maggiore solidità ed una proficua ricaduta delle azioni attivate sugli studenti coinvolti ma anche sulle comunità territoriali in cui operano.

[1] Nicola Cotugno è architetto, docente esperto in progettazione di ambienti di apprendimento cooperativi e multimediali, docente esperto formatore Albo nazionale “Future Lab Plus”, formatore per l’attività di formazione al personale docente dell’Ambito NA13 – Triennio 2019-2022 2a annualità ITI Ferraris Napoli, formatore di Associazione Impara Digitale Secondaria di II grado