Contributo a cura di Roberto Maragliano
(dal convegno Ri-Pensare ai bambini nell’incertezza della nostra epoca, Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia Pesaro, 30 settembre, 2 ottobre 2022)
Educare alla complessità: è una prospettiva avvincente, che piace, in quanto viene sollecitata da una parola stuzzicante, coinvolgente, alla moda, bella sì ma anche terribilmente impegnativa. Se ci ragioniamo un po’ (siamo qui per questo!) non è impossibile arrivare cogliere la grossa insidia sottostante a questa prospettiva. Insidia per noi adulti, insidia per il nostro modo di agire e di pensare. Complessità significa che ogni soluzione di problema ne genera o ne porta alla luce altri, significa riconoscere che la ricerca del giusto, del razionale, del positivo non ha mai fine, significa accettare di stare dentro i problemi, i quali non sono sempre gli stessi (se no non sarebbero problemi), significa fare posto all’incertezza.
Tutto questo colpisce prima di tutto noi adulti, nei comportamenti che assumiamo e nei pensieri che adottiamo.
Di qui la necessità di considerare con spirito razionale e critico (dunque non razionalistico) la condizione materiale e ideale in cui ci troviamo oggi, qui. Lo dobbiamo fare chiedendoci se tra un aspetto e l’altro, tra quel che facciamo e quel che pensiamo, ci sia coerenza.
Due ‘dati di fatto’ incontrovertibili dovrebbero indirizzarci a riflettere, senza pregiudizi alcuni, sul rapporto fra quel che siamo, quel che è il mondo oggi, anche il nostro mondo, e la pedagogia in cui ci riflettiamo (e che ci fa riflettere).
Uno è che viviamo, qui in Italia, ma anche in Europa, anche (almeno tendenzialmente) nella parte occidentale del mondo una drammatica crisi demografica, che potrebbe assumere (e forse sta già assumendo proprio qui in casa nostra) un senso di tragedia. Mettere al mondo figli era la normalità, un tempo, ora è l’anomalia, almeno fino ad una certa età. Quali ne sono le conseguenze? Non è un caso, e non dipende solo dal COVID o dalla guerra, se oggi si parla tanto di morte o comunque si sentono tanto incombenti i temi e i motivi che si legano all’idea e alla sensazione di vuoto, e dunque di morte. Non è un caso se ogni bambino che ci proponiamo di includere dentro un progetto di formazione è pensato e vissuto come unico, come ‘figlio unico’. Potrei andare avanti con questa disamina dell’incidenza dei comportamenti demografici sull’agire formativo. Di fatto, siamo sempre più una società di vecchi autoreferenziali che guardano al futuro con sospetto e si rifugiano su un passato idealizzato. E questa condizione esistenziale ci induce a proporre orientamenti pedagogici che appartengono ad un mondo che non c’è più e che quindi stridono con la realtà attuale, con i nostri comportamenti minuti, quotidiani, e con i nostri atteggiamenti irriflessi. Un mondo di vecchi è portato a vedere il futuro come un’insidia, il suo istinto è di proporre una pedagogia contenitiva. Se invece, quel mondo lì, questo nostro mondo, prova ad andare controcorrente rispetto all’istinto e adotta una pedagogia inclusiva, improntata all’accoglienza e alla generosità, rischia di farlo solo a parole, rischia di produrre nient’altro che ipocrisia e retorica. Pensiamoci.
Analoga considerazione andrebbe proposta, io credo, per l’altro ‘dato di fatto’, che a quello della natalità paradossalmente si collega. È quello rappresentato dalla rivoluzione digitale, un fenomeno che mette in campo, sempre più, un sensorio centrifugo, di tipo audio/visuale/operatorio, difforme rispetto sensorio centripeto organizzato attorno a quel visivo di matrice alfabetica che impregna di sé e domina, tuttora, l’interpretazione riconosciuta e condivisa di sapere, di cultura, di cognizione, di scuola. Il Novecento è stato e continua ad essere, di fatto, l’età dei media, il tratto della nostra storia nel corso del quale ciò che ora chiamiamo ‘ immaginario’ è andato imponendosi, a livello mondiale, come matrice di pensiero, non solo e tanto come falsa coscienza ma come implicita garanzia di sviluppo per la democrazia delle condotte e delle idee: ciò è avvenuto prima per merito dei mezzi della comunicazione unidirezionale (stampa periodica, radio, cinema, televisione, ecc.) e della comunicazione reticolare (telefono), e ‘ora’ (ma è un ‘ora’ che ha ormai trent’anni di vita) sta avvenendo con il digitale e la realtà di rete, attraverso una rivoluzione interna alle infrastrutture stesse del comunicare, dell’agire, dell’essere, dell’essere stesso del mondo reale. Siamo in grado di cogliere il senso di questa trasformazione che, paradossalmente, con l’investire il sensorio e la nostra stessa antropologia ci rende un po’ tutti bambini, rigenerandoci? A vedere come interpretiamo e temiamo questo sommovimento, che non ci viene da un’altra realtà ma è la nostra stessa realtà, si direbbe di no. E sì che in quanto italiani che hanno messo al mondo non solo Montessori o Malaguzzi, ma anche Raffaello, Verdi, Fellini, Dario Fo, e pure il Parmigiano Reggiano, per dire, dovemmo essere avvantaggiati nel capirlo. E invece no, cocciuti, rifiutiamo di comprenderlo e comprenderci, ci rifugiamo dentro pedagogie punitive e autopunitive.
Ma non dispero. Andando controcorrente, mi tocca essere ottimista. La realtà, prima o poi, si impone. Possiamo anticiparne la svolta impegnando noi stessi, adesso, a liberarci di tanti pregiudizi e a stare più pienamente dentro le cose, così come sono, per sentirle e capirle meglio, per sentirci e capirci meglio. La complessità va vissuta, non è possibile imbrigliarla. I bambini, i pochi che abbiamo e quelli in più che sapremo procurarci, vivendo, loro, in presa diretta la realtà complessa, possono aiutarci in questo nostro urgente e necessario risveglio. Siamo proletari della pedagogia che ancora si illudono di essere ottimati. Come diceva l’innominabile, non abbiamo da perdere che le nostre catene.
Si rimanda, per sviluppi di questo discorso, allo Scaffale Maragliano (https://www.scaffalemaragliano.it/) e lì, tra gli altri, al contributo Digitale birichino: https://www.scaffalemaragliano.it/testi/2_Articoli/2021_Digitale%20birichino.pdf