La ormai famosa “lettera dei 600”, pubblicata il 4 febbraio scorso sul blog del Gruppo di Firenze, ha scatenato una ridda di polemiche sul ruolo della scuola nella formazione degli studenti e sul suo, a quanto pare, indiscutibile fallimento.
Non afferma nulla di nuovo: gli studenti, anche a livello universitario, non sanno più scrivere nel pieno rispetto delle regole di ortografia e di morfosintassi; non riescono a comprendere un testo di media lunghezza e/o di media difficoltà, utilizzano un lessico limitato, commettono “errori da terza elementare”. Insomma, la vexata quaestio relativa alle mancanze della formazione dei nostri studenti.
Perché ha destato tanto scalpore?
Probabilmente perché finalmente ad essersene accorti e a scontrarsi con questa dura realtà sono stati i docenti universitari. O per lo meno tali sono per la maggior parte i firmatari del documento e tali si definiscono gli estensori dello stesso.
O forse per le modalità e per le inesattezze contenute all’interno di un documento profondamente critico e per niente costruttivo? O forse perché, all’interno della lettera, sembra che gli autori abbiano dimenticato di fare ammenda per alcune colpe che, seppur solo parzialmente, sono anche del mondo universitario?
Mettendo da parte i destinatari di cui si chiede l’intervento, invocando un non meglio definito “governo del sistema scolastico”, la lettera parla genericamente “di molti anni”, “di troppi ragazzi” che “scrivono male” in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Ma, nello stilare un documento così tranchant e così fortemente incentrato sulla sottolineatura del fallimento di un intero sistema scolastico, non c’è alcun dato a supporto, ma solo un generico riferimento a “molte realtà”, al fatto che “da tanto tempo” etc etc etc. Per un documento che pare punti quasi ad assurgere a manifesto programmatico, in cui si invoca un radicale cambio di prospettiva dal punto di vista della gestione delle politiche scolastiche, forse motivare e argomentare con dati scientificamente più puntuali avrebbe potuto indubbiamente essere utile. Soprattutto perché le ricerche a livello internazionale dicono esattamente il contrario sulla nostra scuola, in particolare su quella primaria.
Si passa quindi ad invocare una non meglio definita “scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica”, come se nell’attuale sistema scolastico non vi fosse alcun criterio organizzativo in base al quale i docenti siano in grado di rivedere il proprio intervento didattico e ricalibrarlo per renderlo più efficace. E invece i docenti ricevono continuamente feedback sulla loro attività e sui loro interventi didattici: ne ricevono tanti e demoliscono e ricostruiscono senza sosta le loro progettazioni didattiche, molto più flessibili e modulari dei vecchi programmi, proprio per adattarle al sempre più variegato panorama delle nostre scuole, dei nostri studenti, su tutto il territorio nazionale e in contesti economici e sociali a volte anche antitetici.
Chi ha stilato il documento sembra non essersi accorto che “insegnare era più facile quando nelle famiglie e nelle comunità resisteva il presidio del limite e si poteva contare su un’alleanza educativa tra adulti”; sembra non essersi accorto che “i fenomeni di desertificazione culturale hanno un carattere generale, di certo non attribuibile alla sola scuola”; sembra non essersi accorto “che questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola”(M. Rossi Doria).
A questa sensatissima e profonda riflessione di M. Rossi Doria aggiungo un quesito: Come mai non viene minimamente tenuto in considerazione il ruolo delle tecnologie informatiche applicate alla didattica? Perchè, in una ipotetica pars costruens che forse avrebbe dovuto far seguito a quella così violentemente e volutamente distruens del documento, non si è pensato a come i docenti contribuiscano anche alla trasformazione del modo di imparare? Nuove tecnologie non sono solo i telefoni cellulari o l’uso delle applicazioni di social network che hanno trasformato le abilità linguistiche degli adolescenti in “balbuzie twittesca”, come scrive E. Galli della Loggia. Le nuove tecnologie hanno trasformato e trasformano continuamente il modo stesso di imparare, attraverso “organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita. […] Il cruciale tema posto dalla lettera-appello non può essere separato da tutto questo. Nelle scuole convivono molte cose. Troppo spesso la didattica trasmissiva, senza laboratorio, mortifica la curiosità e le straordinarie potenzialità esplorative ed espressive dei ragazzi minando la motivazione e si sottovaluta il come si parla e si scrive. Al contempo, moltissimi docenti sanno curare — insieme — curiosa ricerca, conoscenze di base solide, metodo di lavoro, padronanza della lingua. Ed è possibile imparare a farlo. Ma per anni la formazione degli insegnanti era passata da diritto-dovere a opzionale. E sia il Ministero che le Università non hanno davvero raccolto la grande lezione sul come si impara a insegnare. […] La vera competenza docente si costruisce come un sapiente artigianato con una ricchezza di strumenti didattici”.
Fermo restando che non si vuole dar vita a una “guerra” tra conservatori e progressisti o tra reazionari e riformisti, né si pensa che debba esistere una contrapposizione di declino versus progresso, o di norma linguistica versus dinamismo ed evoluzione linguistica, credo sia fondamentale recuperare l’insegnamento di De Mauro nella sua interezza, nella profondità di articolazione del suo pensiero, senza estrapolarne frasi ad effetto che non ne possono sottolineare il ruolo chiave che invece ha avuto. Scrive Giuseppe Patota che De Mauro ha “insegnato a tutti che la storia linguistica di una nazione è intimamente e inestricabilmente connessa con le sue vicende economiche, sociali, politiche e culturali, e che è impossibile ricostruirla prescindendo da queste”; e che il suo studio ha imposto a tutti il tema della responsabilità della scuola nella mancata sconfitta dell’analfabetismo, nel protrarsi del fenomeno dell’abbandono scolastico e dell’adozione di modelli linguistici e didattici superati. Più correttamente, De Mauro metteva in guardia dall’analfabetismo di ritorno, contro il quale adesso tutti andiamo a sbattere e non solo all’interno del mondo della scuola e non solo con i nostri studenti. Ciò che De Mauro affermava fortemente era la necessità di “un insegnamento rigoroso e scientificamente fondato dell’italiano” […] Il bravo insegnante deve sapere tanta di quella grammatica, aver letto tanto Renzi e tanto Serianni e tanto Lepschy e tanto Schwarze, deve sapersi destreggiare così bene tra i buoni dizionari della lingua italiana, da poter far vivere allo studente, dal livello elementare ai livelli sempre più complessi, delle medie superiori, l’esperienza di manipolazione della strumentazione grammaticale che una lingua ti mette a disposizione”.
E allora, alla luce di questa riflessione, alla luce degli interventi di quanti si sono pronunciati su questo dibattito, forse l’Università, invece di puntare il dito contro la scuola, dovrebbe essere spinta a riflettere sul suo operato e sul ruolo che svolge, e che ha svolto, nella formazione della classe docente. Invece di invocare una revisione delle Indicazioni nazionali per il Curricolo, che hanno invece ridato all’italiano il ruolo centrale che merita attraverso la sottolineatura della sua trasversalità rispetto a tutte le altre discipline, bisognerebbe leggerle e proprio da una lettura attenta ripartire nell’individuazione dei ruoli della formazione, riconoscendo il legame che esiste non solo tra i diversi ordini di scuola, che non possono continuare ad operare come compartimenti stagni, ma anche il legame, da una parte, tra ordini di scuola e università e, dall’altra, tra scuola e governo, senza dimenticare come a quest’ultimo spetti soprattutto il compito di “assicurare una decorosa condizione socio-economica ai docenti e […] di verificare la rispondenza della formazione degli aspiranti insegnanti alle funzioni che li attendono nelle aule” (M. Rossi Doria).
Beatrice Baldo
Redazione Impara Digitale
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